Il mese di marzo del 1991 appartiene alla storia della nostra Chiesa Idruntina che forse abbiamo dimenticato troppo presto.

La settimana tra il 2 e il 10 di quel mese Otranto vide l’invasione dolorosa e pacifica della città da parte di migliaia di albanesi. Il primo sbarco avvenne di notte, quasi a svegliare le nostre vite dal torpore e aprirci gli occhi su un popolo tanto vicino eppure tanto lontano per decenni. Il 5 ottobre del 1980, Giovanni Paolo II pellegrino ad Otranto, aveva ricordato la Chiesa d’Albania:

"nell’odierna circostanza non posso non volgere il mio sguardo, oltre il mare, alla non distante eroica Chiesa in Albania, sconvolta da dura e prolungata persecuzione ma arricchita dalla testimonianza dei suoi martiri: Vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e semplici fedeli.
Oltre che a loro, il mio pensiero va anche agli altri fratelli cristiani e a tutti i credenti in Dio i quali subiscono una simile sorte di privazioni in quella nazione. Essere spiritualmente vicini a tutti coloro che soffrono violenza a causa della loro fede è un dovere speciale di tutti i cristiani, secondo la tradizione ereditata dai primi secoli. Direi di più: qui si tratta anche di una solidarietà dovuta alle persone e alle comunità, i cui diritti fondamentali sono violati o perfino totalmente conculcati".


Poco più di dieci anni dopo, quel popolo tanto lontano aveva attraversato il canale ed era nel porto di Otranto. Di notte. Ma il popolo otrantino si svegliò immediatamente: l’arcivescovo mons. Vincenzo Franco, il vicario generale mons. Quintino Gianfreda, la Caritas, i parroci, i sacerdoti, l’Azione Cattolica, i volontari non appartenenti ad alcuna associazione, gli obiettori di coscienza in servizio presso la Caritas diocesana. Non si è dormito quella notte del 2 marzo, né le notti successive. L’accoglienza era diventata la parola d’ordine della nostra Chiesa e delle nostre città. Quella notte e i mesi successivi – come scriveva don Giuseppe Colavero - furono una Pasqua per gli albanesi e per noi: loro sono usciti verso la libertà, noi verso la carità, ci siamo liberati dalla paura dello straniero, abbiamo fraternizzato in nome di quel mare che ci univa.

Il 21 di quel mese di marzo la nostra Chiesa pianse la morte improvvisa di don Pino Palanga. Si era dato tanto da fare per l’accoglienza soprattutto dei minori albanesi: con il sorriso e con la tenacia che avevano caratterizzato tutto il suo luminoso ministero sacerdotale nella nostra Diocesi. Grande amico di don Giuseppe Colavero, primo direttore della nostra Caritas diocesana. Il prossimo 28 marzo ricorderemo il quinto anniversario della sua morte. Don Giuseppe fu il promotore, dal 1991 in poi, di tante azioni della nostra Chiesa diocesana in Albania. Soprattutto, ci offrì da subito, una visione progettuale che ci aiutò a leggere il fenomeno migratorio al di là dell’emergenza del momento.

Sono passati trent’anni da questi fatti. Ci fa bene ricordare per non disperdere la ricchezza della storia della nostra Chiesa che per la sua geografia è chiamata a guardare ad Oriente dove sorge il sole e a lavorare perché il mare non torni più a dividerci. Tante persone dal 1991 in poi hanno attraversato il Canale d’Otranto e sono giunte sulle nostre coste, troppe in quel mare ci hanno perso la vita. Tante altre belle pagine di accoglienza sono state scritte, ma anche tanti peccati di omissione compiuti. Varrebbe la pena non lasciare nell’oblio i ricordi per non dimenticare che, oggi più che mai, siamo un’umanità che sta sulla "stessa barca" in cerca di porti sicuri. La fraternità, ieri come oggi, è l’unico porto di salvezza.

Mons. Vincenzo Franco, don Quintino, don Pino, don Giuseppe e tanti altri che ora sono sull’altra riva, ci aiutino a svegliarci, proprio come quella notte del 2 marzo 1991.

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